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IL CANAVESE

I vini di Cantina 366 nascono dopo una lunga e meticolosa ricerca che ha un obiettivo preciso: salvaguardare l'ecosistema in cui è immersa la vigna.

Dalla cura della vite, alla vendemmia fino ai processi in cantina cerchiamo di far emergere tutte le caratteristiche organolettiche regalate dalla terra canavesana. 

Giovanni Battista Croce, orefice milanese del XVI secolo scrisse che il Canavese era “la superficie vitata più estesa d’Europa”. 

Da allora molte cose sono cambiate, oggi è il tempo del recupero della tradizione.

E la tradizione viticola, da queste parti, ha solo un nome: l’Erbaluce di Caluso.

L’indiscusso re dei vini bianchi canavesani, conosciuto già nel XVII secolo, nonché la prima DOC (Denominazione Origine Controllata) nel 1967 e successiva, nel 2010, Denominazione Origine Controllata e Garantita  del Piemonte.

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L'ERBALUCE
E IL MITO DELLA SUA ORIGINE

Nel tempo dei tempi sulle colline moreniche lasciate dai grandi ghiacciai trovavano dimora le ninfe del lago, dei boschi, delle sorgenti, venerate insieme alla Notte, al Sole, alla Luna, ai Venti, alle Stelle. Alba era una di quelle Dee, solita a indugiare sulle rive dei ruscelli. Un giorno, complici le nubi, ad Alba apparve di nascosto il Sole, il quale, rapito da tanta bellezza, subito se ne innamorò. Ma l’incontro fu difficile, perché il Tempo non consentiva al Sole di non apparire se non quando l’Alba non c’era già più. Era un inseguirsi pieno di ansia. E tutto il mondo celeste ne pativa: le Stelle, la Luna e la stessa madre Terra. Fu la Luna, sorella del Sole, a risolvere la situazione.

Decise un giorno di non lasciare il cielo, ma di interporsi sul cammino del Sole, in modo che questi, nascosto, potesse raggiungere la Terra per incontrare Alba. L’abbraccio fra i due innamorati avvenne sul BRIC più alto delle colline che circondano Caluso. “E’ un un’eclisse ” dissero i saggi. “Era un sogno d’amore che si avverava”, sentenziò la leggenda. E un giorno da quell’amore nacque una bimba: aveva gli occhi color del cielo, la pelle di rugiada e lunghi capelli splendenti come raggi di sole. Ella era gentile e nobile, e di nome ebbe Albaluce. La fama della sua bellezza arrivò ben lontano dal BRIC di Caluso. E ogni anno venivano al tempio cacciatori e contadini, pastori e pescatori che a lei offrivano i frutti del campo, la cacciagione, i pesci dalle squame scintillanti, il fresco formaggio nei canestri di giunco. Si faceva festa , si scambiavano merci, si rendeva omaggio a lei, alla Bella Albaluce, che veleggiava sul lago condotta da bianchi cigni. Ma ecco un giorno farsi avanti i capi tribù al comando della regina Ippa. Occorre terra da coltivare, il lago non dà frutti sufficienti. I verdi ruscelli, le limpide acque devono lasciare posto a campi in cui seminare. E’ un lavoro immenso, si scava il grande canale che farà defluire le acque. Lavoro duro, lavoro tragico, perché l’acqua così costretta tutto travolgerà, seminando la morte. Triste è la Ninfa Albaluce quando attorno a lei si radunano sette giovani rimasti fedeli all’antico rito. Non è proprio delle Dee piangere. Ma ugualmente scende sugli arbusti rinsecchiti, che ora ricoprono le verdi rive di un tempo, una lacrima. E’ il pianto del Sole e dell’Alba, è un pianto che ridona la vita. Quelle lacrime trasformano i secchi arbusti in vigorosi ceppi, da cui s’alzano lunghi tralci e da essi pendono dolci, dorati, grappoli di succosa uva bianca. E’ il dono della Dea ai suoi fedeli. E’ l’atto di nascita del vitigno ERBALUCE, generato dalle lacrime di una Dea, che ha nel cuore i raggi del padre Sole e la tenera dolcezza dell’Alba, quella che sorge ogni mattina sul BRIC di Caluso.

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